
Indice dei contenuti
Un orientatore con vent’anni di esperienza si trova di fronte a una scena che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile: un diciottenne che rifiuta un appuntamento per l’orientamento post-diploma perché “ho già chiesto a ChatGPT quali università fanno per me”. Una coordinatrice di un servizio di placement universitario scopre che gli studenti del primo anno consultano TikTok per decidere quale master scegliere, ignorando completamente l’esistenza dello sportello di orientamento. Un career coach riceve sempre meno richieste da parte di giovani professionisti, che preferiscono affidarsi a quiz online e algoritmi di matching per trovare la propria strada.
Questi non sono episodi isolati, ma segnali di una trasformazione profonda nel modo in cui le nuove generazioni affrontano le scelte professionali. Il digitale non è più un’alternativa all’orientamento tradizionale: per molti giovani è diventato la prima scelta. Questa preferenza non nasce da una valutazione razionale dei pro e contro, ma da dinamiche generazionali, tecnologiche e culturali che gli orientatori devono comprendere a fondo se vogliono rimanere rilevanti. Non si tratta di “convincere” i giovani a tornare indietro, ma di capire cosa li attrae nel digitale e come rispondere a quei bisogni in modo più efficace.
L’illusione dell’autonomia: perché il digitale sembra più “empowering”
C’è una ragione precisa per cui un ventenne preferisce consultare un’intelligenza artificiale piuttosto che bussare alla porta di un orientatore, e ha poco a che fare con la qualità del servizio offerto. Ha a che fare con la percezione di controllo. Quando un giovane interagisce con uno strumento digitale, sente di mantenere il comando della situazione: può interrompere quando vuole, può riformulare le domande senza timore di essere giudicato, può esplorare opzioni senza dover giustificare le proprie curiosità. Non c’è lo sguardo di un adulto che potrebbe trasmettere disapprovazione implicita, non c’è il rischio di sentirsi inadeguato di fronte a domande che non sa come rispondere.
Questa percezione di autonomia è particolarmente attraente per le generazioni cresciute con l’accesso immediato alle informazioni. Sono abituati a trovare risposte istantanee su Google, a personalizzare ogni aspetto della propria esperienza digitale, a navigare contenuti senza intermediari. L’idea di “dipendere” da un professionista per accedere a informazioni sul proprio futuro può sembrare una regressione verso forme di autorità che percepiscono come obsolete.
Ma quello che questi giovani non sempre riconoscono è che l’autonomia offerta dal digitale è, in larga parte, illusoria. Un algoritmo che suggerisce percorsi professionali basandosi su un test di personalità standardizzato non sta valorizzando la loro unicità: sta categorizzandoli. Una ricerca su Google può fornire migliaia di risultati, ma non può aiutarli a distinguere informazioni rilevanti da rumore di fondo. Un video virale su TikTok può raccontare una storia di successo professionale accattivante, ma non può contestualizzarla rispetto alle loro specifiche condizioni di partenza.
Il paradosso è che proprio la generazione che si sente più autonoma nelle scelte professionali è spesso quella più influenzata da algoritmi di raccomandazione che operano in modo opaco, da narrative semplificate che riducono la complessità dei percorsi di carriera, da aspettative irrealistiche alimentate da contenuti pensati per massimizzare l’engagement piuttosto che l’accuratezza.
Il fattore frizione: quando l’accessibilità diventa il criterio decisivo
C’è un altro elemento che spiega la preferenza per il digitale, e riguarda quella che gli esperti di user experience chiamano “frizione”: l’effort richiesto per accedere a un servizio. Per consultare ChatGPT su quale carriera intraprendere, un giovane ha bisogno di trenta secondi e di una connessione internet. Per fissare un appuntamento con un orientatore, deve trovare i contatti del servizio, chiamare o scrivere negli orari di ufficio, concordare un appuntamento che si inserisca nei suoi impegni, presentarsi fisicamente (o collegarsi) a un orario prestabilito, investire almeno un’ora del proprio tempo.
Questa differenza di frizione non è banale. Le nuove generazioni sono abituate a servizi progettati per minimizzare ogni ostacolo tra bisogno e soddisfazione: ordinare cibo con tre tap sullo smartphone, trovare risposte immediate a qualsiasi domanda, accedere a contenuti on-demand senza vincoli di orario. In questo contesto, anche piccole barriere all’accesso possono sembrare enormi. Un servizio di orientamento che richiede prenotazione con una settimana di anticipo, o che opera solo in orari incompatibili con le lezioni universitarie, viene semplicemente escluso dal set di opzioni considerate.
Ma c’è una frizione che il digitale non può eliminare: quella cognitiva ed emotiva necessaria per attraversare davvero un processo di orientamento significativo. Scegliere un percorso professionale richiede di confrontarsi con incertezze, dubbi, paure. Richiede di mettere in discussione assunti, di esplorare aspetti di sé che non sono immediatamente evidenti, di tollerare l’ambiguità che caratterizza ogni scelta importante. Uno strumento digitale può offrire l’illusione di eliminare anche questa fatica, fornendo risposte rapide e rassicuranti. Ma quelle risposte spesso si rivelano fragili quando la persona si trova ad affrontare la realtà concreta delle proprie scelte.
Gli orientatori che stanno rispondendo efficacemente a questa sfida non stanno cercando di aumentare la frizione del digitale per renderlo meno attraente. Stanno riducendo drasticamente la frizione del proprio servizio, rendendolo accessibile dove e quando i giovani ne hanno bisogno, pur mantenendo la profondità che solo un accompagnamento umano può offrire.

Il fraintendimento sulla competenza tecnologica
Esiste un equivoco diffuso che alimenta il senso di inadeguatezza di molti orientatori: l’idea che i giovani, essendo “nativi digitali”, abbiano una competenza tecnologica superiore e quindi sappiano naturalmente come orientarsi nel mare di informazioni e strumenti disponibili online. Questo assunto è pericolosamente falso.
Essere abituati a usare social media, streaming video e app di messaggistica non equivale a possedere competenza digitale critica. Uno studio condotto su studenti universitari italiani ha rivelato che il 73% di loro non sa distinguere contenuti sponsorizzati da contenuti editoriali, il 61% non verifica mai le fonti delle informazioni che trova online, e il 58% considera affidabile un contenuto semplicemente perché ha molte visualizzazioni o like. Quando si tratta di decisioni professionali, questa mancanza di alfabetizzazione digitale critica può avere conseguenze significative.
Un diciannovenne può trascorrere sei ore al giorno su Instagram, ma non avere idea di come valutare se un corso online promosso da un influencer sia effettivamente riconosciuto dal mercato del lavoro. Può usare quotidianamente algoritmi di raccomandazione, ma non comprendere che quegli stessi algoritmi lo stanno esponendo solo a una frazione delle opzioni disponibili, quelle che massimizzano il suo tempo di permanenza sulla piattaforma. Come evidenziato in questa guida pratica per orientatori consapevoli, le distorsioni generate dall’IA nelle informazioni su carriere e formazione sono sistematiche e spesso invisibili per chi non è formato a riconoscerle.
Quello che i giovani possiedono è la fluency tecnologica: sanno usare gli strumenti con naturalezza. Quello che spesso manca è la capacità di valutare criticamente output, riconoscere bias, contestualizzare informazioni, distinguere tra apparenza di competenza e competenza reale. Ed è precisamente questa seconda dimensione che gli orientatori possono e devono offrire.
Il mito della risposta immediata: quando la velocità diventa nemica della qualità
La cultura digitale ha generato un’aspettativa problematica: che ogni domanda meriti una risposta immediata. Questo funziona per domande fattuali semplici (“A che ora chiude questa biblioteca?”), ma diventa fuorviante quando applicato a questioni complesse come l’orientamento professionale. Eppure, molti giovani si rivolgono a strumenti digitali proprio perché offrono quella gratificazione istantanea: fai un test, ottieni un risultato; fai una domanda a un chatbot, ricevi una risposta articolata in pochi secondi.
Il problema è che le domande importanti sull’orientamento professionale raramente hanno risposte immediate. “Quale percorso universitario fa per me?” non è una domanda a cui si può rispondere sensatamente in trenta secondi, perché la risposta dipende da una comprensione profonda di chi è quella persona, cosa valorizza, quali esperienze l’hanno formata, quale contesto familiare e sociale la circonda, quali opportunità sono realisticamente accessibili. Un algoritmo può fornire una risposta rapida, ma quella risposta sarà necessariamente superficiale, basata su correlazioni statistiche generali piuttosto che su comprensione individuale.
C’è un altro aspetto critico: la qualità di un processo di orientamento non si misura dalla velocità con cui si arriva a una conclusione, ma dalla solidità delle basi su cui quella conclusione poggia. Un giovane che ottiene in cinque minuti da un’AI la “risposta” su quale carriera intraprendere può sentirsi temporaneamente rassicurato, ma quella certezza si rivelerà fragile al primo ostacolo. Non ha attraversato il processo riflessivo necessario per comprendere davvero perché quella scelta ha senso per lui, quali sacrifici potrebbe richiedere, quali alternative ha scartato e per quali motivi.
Gli orientatori che riescono a mantenere il contatto con le nuove generazioni non sono quelli che cercano di competere sulla velocità – battaglia persa in partenza contro gli algoritmi. Sono quelli che riescono a far comprendere ai giovani che alcune domande meritano tempo, che la fretta nelle scelte professionali spesso genera costi maggiori in seguito, che la tolleranza dell’incertezza durante un processo di esplorazione è essa stessa una competenza preziosa per costruire una carriera resiliente.

Strategie concrete per riconquistare rilevanza presso le nuove generazioni
Di fronte a questo scenario, alcuni orientatori reagiscono con rassegnazione o con critica moralistica verso i giovani che “non capiscono il valore del supporto professionale”. Nessuna delle due posizioni è produttiva. La questione non è se le nuove generazioni abbiano torto a preferire il digitale – hanno ragioni comprensibili per farlo. La questione è come gli orientatori possano evolvere la propria offerta per rispondere ai bisogni autentici che il digitale sembra soddisfare, facendolo però in modo più efficace e profondo.
Alcune direzioni strategiche stanno emergendo come particolarmente promettenti:
- Ridurre drasticamente le barriere di accesso iniziale: offrire primi contatti tramite i canali che i giovani già usano (chat, social media, brevi video), con la possibilità di accedere a micro-interventi immediati che dimostrino valore senza richiedere grandi impegni di tempo
- Integrare digitale e umano in percorsi ibridi: usare strumenti digitali per la fase informativa e di primo screening, riservando l’intervento dell’orientatore per le fasi che richiedono vera personalizzazione e accompagnamento nelle scelte
- Diventare curatori critici del digitale: posizionarsi non come alternativa al digitale, ma come guide che aiutano i giovani a navigare il digitale in modo più consapevole, segnalando strumenti affidabili e mettendo in guardia da quelli problematici
- Comunicare valore in modo tangibile e immediato: invece di descrivere in astratto i benefici dell’orientamento, mostrare concretamente attraverso casi, testimonianze, esempi cosa cambia quando un giovane viene accompagnato rispetto a quando si affida solo a risorse digitali
- Costruire presenza dove i giovani sono: creare contenuti educativi brevi e accessibili sui canali che le nuove generazioni frequentano, non per “vendere” servizi di orientamento, ma per dimostrare competenza e costruire fiducia graduale
Un elemento critico, come approfondito in questa analisi sul ruolo dell’orientatore in evoluzione, è comprendere che il lavoro dell’orientatore non consiste nel competere con il digitale per fornire informazioni, ma nell’offrire qualcosa che il digitale non può replicare: accompagnamento personalizzato in un processo di costruzione di senso e consapevolezza.
Dall’antagonismo alla complementarietà: un nuovo posizionamento strategico
La vera svolta arriva quando gli orientatori smettono di vedere il digitale come concorrente e iniziano a vederlo come ecosistema in cui operare. I giovani continueranno a usare strumenti digitali per l’orientamento – questa non è una tendenza reversibile. La domanda rilevante è: l’orientatore può diventare la risorsa che aiuta i giovani a usare quegli strumenti in modo più efficace, evitandone le trappole?
Questa prospettiva apre possibilità inedite. Un orientatore potrebbe, per esempio, lavorare con un gruppo di studenti aiutandoli ad analizzare criticamente i risultati di test di orientamento online che hanno già compilato, esplorando cosa risuona, cosa lascia perplessi, quali assunti impliciti quegli strumenti contengono. Potrebbe guidare giovani nell’uso strategico di LinkedIn per esplorare percorsi professionali reali, insegnando loro a individuare pattern significativi nelle carriere altrui. Potrebbe aiutarli a formulare query più efficaci per ChatGPT e poi a valutare criticamente le risposte ricevute.
In questo modello, l’orientatore non si sostituisce al digitale né lo ignora: lo integra, lo contestualizza, lo arricchisce di quella dimensione riflessiva e critica che gli algoritmi non possono offrire. Diventa un “meta-orientatore”: qualcuno che orienta non solo rispetto alle scelte professionali, ma anche rispetto ai modi di orientarsi.
Questo richiede agli orientatori di sviluppare nuove competenze: familiarità con gli strumenti digitali che i giovani usano, comprensione dei loro limiti e bias, capacità di decostruire criticamente output generati da AI. Ma soprattutto richiede un cambio di mindset: dalla logica del “o noi o loro” alla logica del “noi attraverso e oltre loro”.
La preferenza dei giovani per strumenti digitali nell’orientamento non segnala la fine della professione dell’orientatore, ma la necessità della sua evoluzione. Quello che sta emergendo non è un mondo in cui gli algoritmi sostituiscono l’accompagnamento umano, ma un mondo in cui l’accompagnamento umano deve posizionarsi diversamente per rimanere rilevante. Gli orientatori che comprenderanno questa transizione non come minaccia ma come opportunità di ridefinire il proprio valore saranno quelli che continueranno a essere cercati dalle nuove generazioni – non nonostante il digitale, ma proprio per aiutarle a orientarsi in un mondo sempre più digitale.
La vera obsolescenza non minaccia chi sa usare gli strumenti del proprio tempo: minaccia chi resta ancorato a modelli che non rispondono più ai modi in cui le persone cercano supporto. Il futuro dell’orientamento non è né puramente umano né puramente digitale: è intelligentemente ibrido, costruito da professionisti che sanno integrare il meglio di entrambe le dimensioni.

Scopri come Jobiri può supportare e migliorare il tuo lavoro di orientatore: contattaci qui.

CEO e co-fondatore di Jobiri, impresa innovativa che utilizza l’AI per facilitare l’inserimento lavorativo. Con oltre 15 anni di esperienza in management e leadership, Claudio è un esperto nella gestione aziendale e nelle tematiche di sviluppo organizzativo. La sua visione strategica e il suo impegno sociale fanno di lui un punto di riferimento nel settore.

