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Un orientatore con vent’anni di esperienza riceve un giovane cliente ventitreenne. Prepara il solito percorso, tira fuori gli strumenti collaudati, inizia con le domande classiche sull’auto-consapevolezza. Dopo dieci minuti, il ragazzo interrompe educatamente: “Scusa, ma hai una dashboard dove posso vedere i miei progressi in tempo reale? E il materiale che mi dai, è ottimizzato per mobile? Perché io lavoro principalmente dallo smartphone.” L’orientatore si blocca. Non è la prima volta che accade, e non sarà l’ultima. Perché quando i nativi digitali entrano nello studio di orientamento, non portano solo domande diverse: portano un intero paradigma su come dovrebbe funzionare l’assistenza professionale. E molti orientatori si stanno rendendo conto, con un misto di inquietudine e fascino, che il divario generazionale non riguarda solo i contenuti, ma il formato stesso della relazione di aiuto.
L’illusione del bisogno universale
Per decenni, l’orientamento si è basato su un presupposto implicito: i bisogni fondamentali dei clienti sono universali, indipendentemente dall’età. Tutti cercano chiarezza sul proprio percorso, tutti vogliono massimizzare le opportunità, tutti necessitano di supporto nelle transizioni professionali. Questa premessa, per quanto ancora valida in superficie, nasconde una verità scomoda che emerge solo quando si lavora concretamente con la Generazione Z e i Millennials più giovani: non è il “cosa” che è cambiato, ma il “come” vogliono riceverlo.
Questi giovani professionisti non rifiutano l’orientamento tradizionale perché lo considerano inutile, ma perché la modalità di erogazione gli appare anacronistica quanto un fax o un dischetto. Sono cresciuti in ecosistemi dove l’informazione è modulare, accessibile on-demand, personalizzabile, interattiva e immediatamente applicabile. L’idea di incontri mensili di un’ora, durante i quali si discute genericamente di “competenze trasversali” o “valori professionali”, gli suona tanto pertinente quanto un corso di calligrafia in un’era di messaggi vocali.
Ma c’è un aspetto ancora più sottile che sfugge a molti orientatori: questi giovani non stanno semplicemente chiedendo una versione digitale dello stesso servizio. Stanno implicitamente ridefinendo cosa significa “essere orientati”. Per loro, l’orientatore ideale non è un saggio che dispensa consigli dall’alto della propria esperienza, ma un facilitatore che li aiuta a navigare in una sovrabbondanza di informazioni, opportunità e percorsi possibili. Non vogliono qualcuno che dica loro cosa fare, ma qualcuno che li equipaggi per decidere autonomamente con maggiore consapevolezza.

La velocità come linguaggio nativo
Esiste un contrasto stridente tra il ritmo dell’orientamento tradizionale e il ritmo esistenziale dei giovani lavoratori contemporanei. Mentre un orientatore potrebbe progettare un percorso che si sviluppa nell’arco di sei mesi, con appuntamenti cadenzati e “compiti a casa” da completare nelle settimane intermedie, un ventenne vive in un continuum temporale completamente diverso. Riceve feedback istantaneo sui social media, ottiene risposte immediate tramite chatbot, accede a micro-learning quando ha tre minuti liberi tra un impegno e l’altro.
Questo non significa che i giovani abbiano perso la capacità di impegnarsi in processi profondi e di lungo periodo. Significa che la loro soglia di tolleranza per l’attesa artificiale è drasticamente diminuita. Se inviano un messaggio all’orientatore con una domanda urgente su come rispondere a un’offerta di lavoro che scade in 48 ore, e ricevono risposta dopo una settimana con l’invito a “discuterne nel prossimo incontro”, hanno già percepito l’orientatore come disconnesso dalla loro realtà operativa.
I professionisti dell’orientamento più sintonizzati con questa generazione hanno sviluppato architetture ibride che combinano:
- Momenti di lavoro profondo sincrono (videochiamate strutturate per decisioni complesse)
- Supporto micro-asincrono (messaggi audio, risposte rapide a dubbi specifici, condivisione just-in-time di risorse)
- Strumenti di auto-servizio (quiz, template, checklist) accessibili 24/7
- Comunità di pratica peer-to-peer moderate dall’orientatore per apprendimento distribuito
Questa architettura non è semplicemente più comoda: è ontologicamente diversa. Trasforma l’orientatore da erogatore periodico di consulenze a curatore continuo di un ecosistema di supporto.
L’autenticità come valuta relazionale
Un fenomeno apparentemente paradossale caratterizza i giovani lavoratori: nonostante vivano immersi nel digitale, sono estremamente sensibili all’autenticità e diffidenti verso qualsiasi forma di comunicazione che percepiscono come artificiosa o eccessivamente “professionale” nel senso tradizionale del termine. Un orientatore che parla con il linguaggio dei manuali, che utilizza terminologie accademiche senza contestualizzarle, che mantiene una distanza professionale rigida, viene rapidamente categorizzato come “boomer” e, conseguentemente, come irrilevante.
Ciò che cercano invece è una combinazione insolita: alta competenza tecnica combinata con tono conversazionale, chiarezza senza condiscendenza, professionalità senza formalismo. Vogliono vedere l’orientatore come persona reale che condivide vulnerabilità, ammette quando non sa qualcosa, mostra il processo di ragionamento e non solo le conclusioni. La generazione TikTok è abituata a contenuti “dietro le quinte” dove i creator mostrano errori, dubbi, evoluzioni del pensiero. Applicano lo stesso criterio all’orientamento.
Questo crea una sfida complessa per orientatori formati in paradigmi dove la credibilità professionale si costruiva attraverso una certa distanza, una presentazione sempre impeccabile, la proiezione di sicurezza e controllo. Come evidenziato nell’analisi su cosa fa l’orientatore, il ruolo stesso si sta evolvendo da esperto che fornisce risposte a facilitatore che accompagna nei processi decisionali, richiedendo un posizionamento relazionale profondamente diverso.

La personalizzazione come prerequisito, non come lusso
Quando un giovane professionista cerca supporto per l’orientamento, porta con sé un’aspettativa forgiata da anni di esperienza con algoritmi di raccomandazione: si aspetta che l’orientatore “lo capisca” rapidamente e profondamente, e che ogni interazione successiva dimostri memoria cumulativa di ciò che è stato discusso precedentemente. Non vuole ripetere informazioni già condivise, non vuole ricevere materiali generici che deve lui filtrare per trovare ciò che è rilevante.
Questa aspettativa, che potrebbe sembrare esigente o irrealistica, è in realtà lo standard che vivono quotidianamente con Netflix, Spotify, Amazon, LinkedIn. Questi sistemi imparano dai loro comportamenti e preferenze, e affinano continuamente le raccomandazioni. Un orientatore che ad ogni incontro riparte da zero, che fornisce lo stesso handout a tutti i clienti, che non tiene traccia strutturata delle conversazioni precedenti, appare meno sofisticato di un semplice algoritmo.
La buona notizia è che gli strumenti per operare con questo livello di personalizzazione esistono e sono accessibili. CRM dedicati, piattaforme di gestione clienti, sistemi di documentazione intelligente permettono di costruire quello che potremmo chiamare un “profilo cumulativo” del cliente, dove ogni nuova interazione arricchisce la comprensione complessiva e informa interventi sempre più mirati. Il problema non è tecnologico ma culturale: quanti orientatori hanno effettivamente investito in questi sistemi e nelle competenze per utilizzarli efficacemente?

Il significato come ancora in un mare di opzioni
Eppure, sotto la superficie di tutte queste aspettative tecnologiche e comunicative, esiste un bisogno profondo che questa generazione porta con particolare intensità: la ricerca di significato. Cresciuti in un’epoca di abbondanza informativa ma scarsità attenzionale, di infinite possibilità ma poche certezze strutturali, di flessibilità senza confini ma anche di precarietà senza rete, i giovani lavoratori cercano nell’orientatore qualcosa che gli algoritmi non possono fornire: aiuto nel costruire una narrazione coerente della propria traiettoria professionale.
Non vogliono solo trovare un lavoro o ottimizzare il curriculum. Vogliono capire come le scelte che stanno facendo oggi si inseriscono in una storia più ampia su chi sono e chi stanno diventando. Vogliono esplorare il rapporto tra lavoro e identità in un’epoca in cui i confini tradizionali si sono dissolti. Vogliono riflettere su come bilanciare ambizione professionale, benessere psicofisico, relazioni significative e impatto sociale in un contesto che sembra richiedere sacrifici impossibili.
Qui emerge il paradosso più affascinante: la generazione apparentemente più superficiale e frammentata nella sua attenzione è in realtà affamata di conversazioni profonde su questioni esistenziali. Ma vuole affrontare queste questioni in un formato che rispetti i loro ritmi, i loro linguaggi, le loro modalità di elaborazione. Come approfondito nell’articolo su che cos’è l’orientamento, la disciplina stessa sta attraversando una trasformazione che richiede di riconciliare tradizione metodologica con innovazione nelle modalità di intervento.
Costruire ponti senza tradire l’essenza
La domanda che molti orientatori si pongono è legittima: adattarsi a queste aspettative significa snaturare l’orientamento, ridurlo a un servizio transazionale che fornisce quick fix anziché accompagnare trasformazioni profonde? La risposta è no, ma richiede una sottigliezza concettuale importante. Ciò che va adattato è il contenitore (formato, ritmi, strumenti, linguaggio), non il contenuto (profondità di analisi, rigore metodologico, attenzione alla persona nella sua interezza).
Gli orientatori che stanno navigando con successo questo passaggio generazionale hanno capito che parlare il linguaggio dei giovani non significa banalizzare, ma tradurre. Significa prendere framework concettuali solidi e renderli accessibili attraverso esempi concreti, casi di studio attuali, metafore che risuonano con l’esperienza contemporanea. Significa utilizzare video brevi, infografiche, quiz interattivi non al posto del colloquio profondo, ma come porte d’ingresso che abbassano la soglia iniziale di impegno.
Significa anche accettare che l’autorità professionale non si conquista più attraverso titoli o anni di esperienza dichiarati, ma attraverso la dimostrazione continua di valore nelle interazioni quotidiane. Ogni messaggio, ogni risorsa condivisa, ogni feedback fornito è un micro-momento di verità in cui l’orientatore dimostra se è davvero in grado di vedere il cliente, comprenderlo e supportarlo efficacemente.
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CEO e co-fondatore di Jobiri, impresa innovativa che utilizza l’AI per facilitare l’inserimento lavorativo. Con oltre 15 anni di esperienza in management e leadership, Claudio è un esperto nella gestione aziendale e nelle tematiche di sviluppo organizzativo. La sua visione strategica e il suo impegno sociale fanno di lui un punto di riferimento nel settore.

