
Indice dei contenuti
- Il linguaggio del potere decisionale non è fatto di buone intenzioni
- Mappare il costo reale dell’inadeguatezza tecnologica
- Costruire il business case: dalla richiesta emotiva alla proposta strategica
- I dati che vincono le obiezioni prima che vengano pronunciate
- Dal conflitto alla partnership: rendere i decisori alleati del proprio successo
- Conclusione: dalla posizione di richiedente a quella di investitore interno
Quante volte un orientatore ha sentito la risposta “non ci sono fondi disponibili” di fronte a una richiesta legittima? Un software di career management che potrebbe triplicare l’efficienza operativa, una formazione specialistica sull’intelligenza artificiale applicata all’orientamento, un collaboratore part-time per gestire il sovraccarico di utenti, tutte necessità concrete, tutte respinte con la stessa formula burocratica.
Eppure, nella stessa organizzazione, altri dipartimenti ottengono regolarmente approvazioni per investimenti anche più consistenti. La differenza non sta nella disponibilità reale delle risorse, ma nella capacità di costruire argomentazioni che rendano il “no” impossibile da pronunciare. E questa capacità si fonda su un elemento preciso: dati inattaccabili che trasformano una richiesta soggettiva in una necessità oggettiva.
Il linguaggio del potere decisionale non è fatto di buone intenzioni
Quando un orientatore chiede nuove risorse descrivendo quanto sarebbe “utile” un determinato strumento o quanto si sente “sovraccarico” di lavoro, sta parlando un linguaggio emotivo che i decisori aziendali hanno imparato a filtrare automaticamente. Non per cinismo, ma per necessità strutturale: ogni dipartimento presenta richieste simili, ogni responsabile si sente sotto pressione, ogni ufficio vorrebbe più budget. In questo contesto saturo di domande, solo chi parla il linguaggio dei decisori ottiene ascolto. E quel linguaggio si articola in tre elementi fondamentali: problemi misurabili, costi dell’inazione quantificati, ritorno sull’investimento dimostrabile.
Il vero spartiacque tra orientatori che ottengono risorse e quelli che le vedono sistematicamente negate non è la qualità del loro lavoro, spesso i professionisti più competenti sono anche quelli più frustrati dai rifiuti. La differenza sta nella capacità di documentare il gap tra situazione attuale e situazione necessaria attraverso evidenze che resistono allo scetticismo. Quando un orientatore afferma “abbiamo bisogno di un CRM dedicato perché gestiamo manualmente 800 contatti all’anno con un tasso di errore del 12% che genera follow-up mancati e opportunità perse”, non sta più chiedendo un favore: sta segnalando un problema aziendale che costa denaro e reputazione. Questa è la grammatica del potere contrattuale.
Ma come si costruisce concretamente questo arsenale argomentativo? La risposta richiede un cambio radicale di prospettiva sul proprio ruolo: da erogatore di servizi a analista strategico del proprio impatto. Significa iniziare a tracciare non solo cosa si fa, ma cosa succederebbe se non lo si facesse. Significa misurare non solo i successi, ma anche i colli di bottiglia, le inefficienze, i costi nascosti delle carenze strutturali. Perché ogni dato raccolto diventa una munizione per la battaglia delle risorse.

Mappare il costo reale dell’inadeguatezza tecnologica
Molti orientatori sottovalutano drammaticamente quanto costa alla propria organizzazione l’assenza di strumenti adeguati. Non si tratta solo del tempo personale sprecato in attività manuali ripetitive, ma dell’intera catena di conseguenze che l’inefficienza genera. Prendiamo un esempio concreto: un orientatore universitario che gestisce 600 studenti all’anno senza un sistema di scheduling automatico perde mediamente 4 ore settimanali solo in comunicazioni email per fissare, spostare e confermare appuntamenti. Sono 208 ore annue, equivalenti a oltre 5 settimane lavorative complete dedicate a coordinamento invece che a orientamento sostanziale.
Ma il costo reale va oltre questa perdita diretta. Ogni ritardo nella risposta a uno studente diminuisce la probabilità di engagement: studi nel settore dell’higher education mostrano che tempi di risposta superiori alle 48 ore riducono del 35% la probabilità che lo studente completi il percorso di orientamento iniziato. Se quell’orientatore riesce a seguire efficacemente solo 400 dei 600 studenti potenziali a causa dei limiti operativi, e il 60% di questi trova placement entro 6 mesi dalla laurea contro il 45% di chi non riceve supporto, il costo dell’inadeguatezza tecnologica si traduce in 30 placement mancati all’anno. Per un’università che misura il proprio valore anche attraverso i tassi di occupabilità dei laureati, questo non è un dettaglio: è un indicatore strategico che impatta reputazione e capacità di attrarre nuove iscrizioni.
Documentare questi costi richiede un approccio sistematico:
- Mappare il tempo sprecato: utilizzare per due settimane un time-tracking dettagliato che distingua tra attività a valore aggiunto (colloqui, workshop, progettazione) e attività amministrative evitabili con strumenti adeguati
- Quantificare le opportunità perse: stimare quanti utenti potenziali non vengono serviti adeguatamente a causa di limiti di capacità operativa
- Calcolare il costo-opportunità: tradurre queste perdite in metriche comprensibili per i decisori (placement mancati, soddisfazione ridotta, impatto reputazionale)
- Confrontare con il mercato: identificare standard di settore che mostrano come organizzazioni comparabili ottengano risultati superiori grazie a investimenti specifici
Quando questi dati vengono presentati non come lamentela ma come analisi professionale di un problema aziendale, la conversazione cambia radicalmente natura. Non è più “vorrei uno strumento migliore”, diventa “stiamo lasciando sul tavolo 30 placement all’anno per non investire 3.000 euro in un sistema che si ripaga in 4 mesi”.
Costruire il business case: dalla richiesta emotiva alla proposta strategica
Il passaggio da “richiesta respinta per default” a “proposta seriamente considerata” avviene quando l’orientatore smette di chiedere risorse e inizia a proporre investimenti con ritorno misurabile. Un business case efficace per risorse aggiuntive segue una struttura precisa che i decisori riconoscono e rispettano, perché è la stessa che utilizzano per valutare qualsiasi allocazione strategica di budget. La differenza è che troppo spesso gli orientatori non conoscono questa struttura, continuando a presentare richieste secondo logiche di necessità personale invece che di opportunità organizzativa.
Un business case robusto si articola in cinque componenti essenziali.
- Primo: la descrizione precisa del problema attuale, supportata da dati quantitativi che ne dimostrano la rilevanza. Non “siamo sovraccarichi”, ma “attualmente gestiamo 45 utenti per settimana con una capacità ottimale di 30, generando tempi di attesa medi di 12 giorni contro uno standard di settore di 3-5 giorni”
- Secondo: l’analisi delle conseguenze dell’inazione, espressa in termini di costi, rischi o opportunità mancate. “Il 23% degli utenti abbandona il percorso a causa dei tempi di attesa, traducendosi in 140 placement potenziali non realizzati annualmente”
- Terzo: la proposta di soluzione specifica, con dettagli operativi e finanziari. “L’assunzione di un orientatore part-time (20 ore settimanali, costo annuo 18.000 euro) porterebbe la capacità settimanale a 60 utenti, eliminando i tempi di attesa eccessivi”
- Quarto: il calcolo del ritorno sull’investimento, possibilmente espresso in metriche che l’organizzazione già utilizza per misurare il successo. “Con un tasso di retention del 90% (contro l’attuale 77%), realizzeremmo 108 placement aggiuntivi all’anno. Considerando che ogni placement genera un impatto reputazionale valutato internamente a 500 euro di ‘valore marketing’, il ROI è del 200% nel primo anno”
- Quinto: il piano di misurazione che dimostrerà se l’investimento ha generato i risultati promessi.
Come evidenziato in questo approfondimento sul ruolo strategico dell’orientatore, la capacità di articolare il proprio contributo in termini di valore organizzativo misurabile non è vanità professionale ma competenza essenziale per operare efficacemente in contesti dove le risorse sono limitate e la competizione per ottenerle è intensa.

I dati che vincono le obiezioni prima che vengano pronunciate
Esiste una categoria particolare di dati che trasforma radicalmente il potere contrattuale di un orientatore: quelli che anticipano e neutralizzano le obiezioni standard che ogni richiesta di budget incontra. I decisori hanno repertori prevedibili di resistenze (“costa troppo”, “non è prioritario ora”, “possiamo arrangiarci ancora”, “non siamo sicuri che funzioni”) e ogni obiezione può essere disinnescata preventivamente con evidenze appropriate. L’orientatore che presenta una richiesta già avendo costruito risposte data-driven a queste obiezioni sta giocando una partita completamente diversa.
Prendiamo l’obiezione “costa troppo”. Questa frase raramente significa che il budget non esiste, ma che il decisore non percepisce il valore proporzionato al costo. La risposta efficace non è “ma ne abbiamo davvero bisogno”, è mostrare che il costo dell’inazione supera largamente l’investimento richiesto. Un orientatore che documenta di passare 6 ore settimanali in attività amministrative automatizzabili sta mostrando un costo-opportunità di 312 ore annue. Se il suo costo orario aziendale è 25 euro, sono 7.800 euro di valore disperso ogni anno. Un software da 2.000 euro che recupera l’80% di quelle ore si ripaga in 4 mesi. Questo non è convincere, è dimostrare.
L’obiezione “non è prioritario ora” richiede un approccio diverso: evidenze che mostrano come il ritardo nell’investimento generi costi crescenti o opportunità irrecuperabili. Dati che dimostrano trend negativi (“il tasso di placement è sceso dal 68% al 61% negli ultimi due anni mentre la domanda di servizi è aumentata del 30%”) trasformano una richiesta in un allarme che richiede risposta immediata. L’obiezione “possiamo arrangiarci ancora” cade di fronte a benchmarking con istituzioni comparabili che ottengono risultati superiori grazie agli investimenti che si stanno richiedendo: “l’università X, con popolazione studentesca simile, raggiunge placement del 75% investendo 45.000 euro annui in servizi di orientamento contro i nostri 28.000”.
Infine, l’obiezione “non siamo sicuri che funzioni” si dissolve di fronte a pilot program ben documentati. Invece di chiedere l’investimento completo immediatamente, proporre una fase pilota limitata con metriche di successo chiaramente definite: “investiamo 5.000 euro per un semestre di accesso a questo strumento, misuriamo se aumenta l’efficienza del 20% come previsto, poi decidiamo il roll-out completo”. Questa proposta trasforma un rischio percepito in un esperimento controllato che ogni decisore razionale può accettare.

Dal conflitto alla partnership: rendere i decisori alleati del proprio successo
Il paradosso finale di molte dinamiche di richiesta-rifiuto è che orientatori e decisori condividono fondamentalmente gli stessi obiettivi: massimizzare l’impatto dei servizi di orientamento, migliorare gli outcome per gli utenti, aumentare la reputazione dell’organizzazione. Il conflitto apparente non nasce da divergenza di valori ma da asimmetria informativa: il decisore non vede quello che l’orientatore vede quotidianamente, e l’orientatore non comunica in modo che il decisore possa capire davvero. Colmare questo gap informativo trasforma la relazione da antagonista a collaborativa.
La strategia più efficace per costruire questa alleanza è coinvolgere proattivamente i decisori nella definizione delle metriche di successo e nella misurazione continua dei risultati. Invece di presentare richieste isolate quando serve qualcosa, instaurare una pratica di reportistica periodica che mostra trend, sfide emergenti e opportunità potenziali. Quando un responsabile riceve da mesi dati strutturati che mostrano l’evoluzione dei servizi di orientamento, ha già il contesto necessario per valutare intelligentemente qualsiasi richiesta futura. Non si trova più a dover decidere al buio se approvare o negare, può valutare la proposta all’interno di una narrativa condivisa sull’andamento del servizio.
Questa trasformazione richiede un investimento iniziale di tempo nella costruzione dei sistemi di tracking e reportistica, ma genera dividendi composti nel tempo. Ogni dato raccolto oggi diventa una risorsa per future negoziazioni. Ogni trend documentato costruisce credibilità professionale. Ogni obiettivo dichiarato e poi raggiunto aumenta la fiducia del decisore nelle capacità dell’orientatore di utilizzare efficacemente le risorse ricevute. E quando arriva il momento di chiedere un investimento significativo, quel software costoso, quella formazione specialistica, quel collaboratore aggiuntivo, la conversazione non parte da zero ma si innesta su mesi o anni di evidenze che hanno già costruito il caso.
Per comprendere come l’evoluzione digitale stia ridefinendo le competenze strategiche dell’orientatore, inclusa la capacità di costruire argomentazioni data-driven per ottenere risorse, vale la pena esplorare questo approfondimento sull’orientamento come disciplina in trasformazione, dove emerge chiaramente come la padronanza del linguaggio dei dati non sia più opzionale ma costitutiva del ruolo contemporaneo.
Conclusione: dalla posizione di richiedente a quella di investitore interno
Ottenere risorse in contesti di scarsità non è questione di fortuna, connessioni politiche o capacità di lamentarsi più efficacemente. È una competenza professionale precisa che si costruisce sulla capacità di tradurre bisogni operativi in business case inattaccabili, supportati da dati che rendono il “no” più costoso del “sì”. L’orientatore che padroneggia questa competenza non deve più lottare per ogni risorsa: presenta investimenti che qualsiasi decisore razionale riconosce come vantaggiosi per l’organizzazione.
Questa trasformazione richiede disciplina nel tracciare metriche rilevanti, rigore nell’analizzare costi e benefici, strategia nel costruire alleanze con i decisori attraverso comunicazione continua e trasparente. Ma il ritorno su questo investimento va ben oltre l’ottenimento di budget specifici: costruisce reputazione professionale, aumenta l’influenza strategica, posiziona l’orientatore come partner essenziale per il successo organizzativo invece che come centro di costo da contenere. E quando un orientatore raggiunge questa posizione, le risorse non sono più qualcosa da mendicare, ma strumenti che l’organizzazione è motivata a fornire per massimizzare un investimento che ha già dimostrato di funzionare.
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CEO e co-fondatore di Jobiri, impresa innovativa che utilizza l’AI per facilitare l’inserimento lavorativo. Con oltre 15 anni di esperienza in management e leadership, Claudio è un esperto nella gestione aziendale e nelle tematiche di sviluppo organizzativo. La sua visione strategica e il suo impegno sociale fanno di lui un punto di riferimento nel settore.

